IL TRINCERONE: NASCITA ED EVOLUZIONE DELLO SBARRAMENTO DI VAL BRENTA A GRIGNO
Prima della grande guerra, gli apprestamenti difensivi di confine realizzati dal regno d’Italia lungo il Canal di Brenta, nel contesto della cosiddetta “fortezza Brenta-Cismon”, erano basati sulle due grandi tagliate stradali realizzate l’una a livello dell’ansa valliva di Primolano e l’altra alla stretta del Tombion, tra Primolano stesso e Cismon. La prima, un vasto complesso fortificato composto dalla tagliata “della Scala” e da quella “delle Fontanelle”, non aveva tuttavia un esteso campo d’azione a causa della sua collocazione nella concavità che la valle del Brenta forma in quel punto. Ancora minore era, poi, la gittata consentita alle artiglierie postate nell’opera del Tombion, sul fondo dell’angusto canyon oggidì solcato da ferrovia e superstrada. Per rimediare parzialmente a tali deficienze, entro il 1914 erano stati approntate altre due opere aggiuntive: le due batterie in barbetta di Col del Gallo (l’opera superiore e l’opera inferiore, poi integrate dall’appostamento più avanzato di Colle della Spina sopra il villaggio di S. Vito) e soprattutto dalla batteria in caverna di Coldarco, in destra Brenta, poco sotto Enego.
Di fronte agli imponenti lavori di fortificazione italiani nella zona di confine sul fondovalle, iniziati nel 1882 e ripresi con nuova lena nel 1906 dopo quasi dieci anni di interruzione (1896-1905) a seguito del disastro militare di Adua, l’amministrazione militare austroungarica aveva mostrato un atteggiamento quasi assolutamente passivo: solamente verso il 1904 avevano visto la luce i primi progetti, miranti a consolidare la difesa del versante orientale del Tirolo italiano mediante delle opere corazzate da erigere sia in sinistra Brenta a Col Balestrina (oggi Col della Cimogna, presso il ristorante “Il Cacciatore” sull’altopiano di Celado) e a monte Picosta, sia sulla destra orografica del fiume sul Colle di Val d’Antenne. Lo “Sperre Grigno” (Sbarramento di Grigno) prevedeva, per la chiusura della Valsugana, un complesso di ben sei costose opere corazzate di modernissima concezione, ma la cronica carenza di fondi della duplice monarchia e l’assoluta ostilità della componente ungherese del governo imperiale a qualunque impegno di fondi da destinare al rafforzamento militare del confine con l’Italia (a fronte, era l’obiezione, della ben più consistente minaccia rappresentata dalle armate dello sterminato impero russo) determinarono il completo abbandono di ogni ulteriore progetto fortificatorio. Le uniche difese corazzate austriache efficienti nella valle del Brenta rimasero le ormai superate fortezze di Tenna e di Colle delle Benne, nei pressi dei laghi di Levico e Caldonazzo.
Sin dallo scoppio della guerra italo-austriaca (24 maggio 1915), comunque, la scelta strategica della monarchia asburgica rese sostanzialmente inutilizzabili le opere fortificate permanenti precedentemente erette dall’Italia presso il confine. Ritirando il proprio esiguo schieramento difensivo su una linea che dalla conca dei laghi di Levico e Caldonazzo seguiva il crinale principale del Lagorai fino a Passo Rolle, l’Austria-Ungheria spostava di fatto il fronte di Valsugana all’interno del territorio asburgico, ben oltre la gittata delle artiglierie installate nelle fortezze dello sbarramento Brenta-Cismon. Indubbiamente, con questa mossa, l’impero dell’aquila bicipite riuscì brillantemente nell’intento di vanificare la superiorità avversaria in termini di strutture fortificate di confine. Altrettanto impegno, purtroppo, non venne profuso dall’amministrazione militare e civile della contea del Tirolo, capitanato distrettuale di Borgo, nel provvedere alla sicurezza della popolazione civile, che venne sostanzialmente abbandonata a sé stessa nonostante ai più fosse da tempo chiaro che la guerra con l’Italia era ormai, oltreché inevitabile, anche imminente. Agli abitanti della bassa Valsugana, da Roncegno in giù, venne semplicemente consigliato di allontanarsi sollecitamente dai centri abitati, spostandosi verso Trento da dove essi sarebbero poi stati smistati in attesa della conclusione del conflitto. Il 24 maggio 1915, pertanto, Grigno e Tezze registravano in pratica la sola assenza dei militari richiamati a partire dall’agosto 1914: il resto della popolazione era nella quasi totalità ancora tranquillamente residente nei due villaggi nonostante l’evacuazione del personale militare, di gendarmeria e dell’amministrazione civile.
Benché nel primo giorno di guerra le truppe italiane sul fondovalle non si fossero mosse oltre il confine (mentre sui rilievi laterali i reparti fiancheggianti avevano occupato la conca della Barricata e l’altopiano di Celado), il 25 maggio il 43° battaglione bersaglieri procedeva all’occupazione di Tezze partendo da Primolano con il comando e due compagnie. L’avanzata era appoggiata sulla destra da una terza compagnia che da Fastro Bassanese procedeva a mezza costa sul fianco della valle scendendo infine al piano in località Fontanelle. Per le 6:30 del mattino del 25 i fanti piumati avevano il completo controllo del paese, mentre verso le 8:00 oltre 250 uomini erano schierati in avamposti tra Filipini e Palù. Durante l’azione, un pattuglione della Regia Guardia di Finanza comandato dal maresciallo della stazione di Enego Gaetano Pizzighella (che cadrà in azione in località Cristo d’Oro, presso Samone, il 26 giugno successivo) sorprendeva due militari austriaci distaccati in sussidio alla gendarmeria: essi furono i primi prigionieri di guerra nel settore Brenta-Cismon. Quattro giorni dopo, il 30 maggio, due battaglioni dell’83° reggimento fanteria della brigata Venezia ed una batteria del 19° reggimento di artiglieria da campagna (su 4 pezzi) occupavano Grigno, lo superavano e si schieravano sulla linea Selva- osteria del Tollo senza incontrare alcun reparto avversario. Cinque giorni più tardi l’intero dispositivo militare italiano sul fondovalle veniva fatto avanzare, senza incontrare resistenza, fino alla stretta di Ospedaletto (ponte dei Gobi, all’altezza della stazione ferroviaria): Grigno e Tezze erano già divenuti “immediata retrovia” del fronte.
In un primo momento, il 5 giugno 1915, la linea italiana parve dunque assestarsi all’altezza di Ospedaletto, dove vennero iniziati modesti lavori campali per sbarrare la valle all’altezza della stazione ferroviaria, appoggiandosi a sud alle pendici di Cima Caldiera e a nord allo strategico Monte Lefre. Ma l’avanzata italiana, che nei primi tre mesi di guerra si sviluppò pressoché incontrastata fino alla conca di Borgo, determinò per le regie truppe la necessità di disporre di una sufficiente massa di artiglieria sulle nuove posizioni raggiunte; la carenza di armi d’assedio fece divenire “accettabile” la loro sostituzione con personale e pezzi del parco di artiglieria da fortezza precedentemente schierati nelle tagliate di confine. Parimenti utili alla sistemazione delle nuove opere campali si rivelarono il parco d’attrezzature del genio ed i reparti di zappatori provenienti dalla Fortezza Brenta-Cismon. A fronte di questa “fame” di reparti tecnici e di materiale da impiegare nelle nuove fortificazioni campali non desta meraviglia la scarsa attenzione dedicata dagli italiani all’impostazione e, soprattutto, al consolidamento di linee di difesa arretrata: tutto ciò che, in termini di uomini e di attrezzature, si rendeva via via disponibile veniva destinato al rafforzamento delle linee avanzate di recente acquisizione.
Durante la seconda metà del 1915 e fino al maggio 1916 lo schieramento italiano avanzò lentamente, fino a trovarsi a ridosso della linea principale di difesa austriaca, ma senza riuscire ad intaccarla in modo apprezzabile. In Valsugana, in particolare, l’intensa pressione italiana del marzo-aprile 1916 tra Val di Sella, Novaledo, Monte Broi e S. Osvaldo (pendici del Panarotta) provocò una violentissima reazione austriaca che, oltre ad infliggere gravi perdite e ad obbligare a un drastico ripiegamento della linea su Roncegno e Marter, rese chiara per i comandi italiani la necessità di approntare lungo la Valsugana degli sbarramenti arretrati in grado di contenere eventuali sforzi offensivi avversari. Ma ormai si era alle porte della “Offensiva di Primavera nel Tirolo Meridionale”, come veniva ufficialmente definita la “Strafexpedition” dai comandi austriaci, e tutte le risorse e le energie delle forze italiane erano state spese per il rafforzamento della linea avanzata Val di Sella- Zaccon – Larganza – Roncegno – Monte Collo e della linea principale Val di Sella – Armentera – S. Giorgio – Borgo – Ciolino – Salubio.
Quando l’inatteso successo delle azioni dimostrative organizzate dagli austroungheresi in Val di Sella aprì a questi ultimi le strada lungo il corso del torrente Moggio fino ad Olle, determinando il crollo della linea avanzata italiana e di quella principale, il ripiegamento delle regie truppe dalla conca di Borgo – Scurelle – Strigno – Agnedo non trovò capisaldi già approntati sui quali attestarsi, se non sul monte Civeron. Sul fondovalle, la mancanza di opere campali già utilizzabili determinò un potenzialmente disastroso “cul de sac”, perché la linea italiana, attestata a sud sul Civeron e a nord sulle alture di Samone – Strigno – castel Ivano, si infletteva pericolosamente al centro, lungo il Brenta, ove erano stati abbandonati Villa, Agnedo, Ivano e Fracena, la località Barricata di Agnedo e tutta la boscosa plaga delle Mesole fino all’altezza di Ospedaletto. Proprio questa inflessione rendeva vulnerabile il caposaldo del Civeron, che infatti cadde, attaccato da tre lati, il 26 maggio. Per arginare l’avanzata austriaca risultarono estremamente utili i lavori iniziati nel giugno 1915, e successivamente sospesi, per lo sbarramento di Ospedaletto, che dalla fine del maggio 1916 al novembre 1917 rappresentò il caposaldo più importante della linea principale italiana in fondovalle.
Ma l’offensiva austriaca aveva drammaticamente evidenziato l’assenza di strutture difensive rilevanti in Valsugana dietro le prime linee, appalesando gli enormi rischi cui un eventuale sfondamento avrebbe esposto l’intero schieramento e i settori settentrionale e meridionale adiacenti. Ecco la ragione dell’improvvisa ripresa, con mezzi infinitamente superiori, dei lavori fortificatori già iniziati nel 1915 ma poi trascurati per carenza di tempo, uomini e materiali. Il tenente colonnello Antonio Dal Fabbro, già direttore del genio dello Sbarramento Brenta-Cismon e successivamente comandante del genio della 15^ divisione in Valsugana, venne incaricato di elaborare un disegno d’insieme per una serie di rafforzamenti sulle linee prescelte dai comandi superiori.
La difesa italiana di fondo Valsugana venne così organizzata su più sistemi successivi di fortificazione campale, imperniati su una linea trincerata continua a sbarramento della parte pianeggiante, più vulnerabile, del solco vallivo; ai lati, dove le pendici dei monti delimitanti salivano bruscamente verso l’altopiano dei Sette Comuni e verso il Monte Lefre ed il massiccio di Monte Mezza, vennero progettati dei caposaldi per artiglieria e mitragliatrici, in grado di appoggiare con fuoco incrociato e d’infilata le trincee situate in basso. Una prima linea trincerata si consolidò, così, da un lato all’altro della valle, su precedenti lavori del 1915, all’altezza della stazione ferroviaria di Ospedaletto (“ponte dei Gobi”), preceduta da una linea detta “d’osservazione” organizzata non con trincee continue, bensì con capisaldi autonomi in grado di difendersi a 360 gradi sull’argine sinistro del torrente Chieppena. Un posto avanzato era situato ad ovest del Chieppena, alla stazione ferroviaria di Strigno – Agnedo. Dietro la linea di Ospedaletto, che era parte integrante della linea principale di resistenza, venne gradualmente organizzato il cosiddetto “sbarramento di Val Brenta a Grigno”, al quale faceva seguito, ancora più ad est, lo “sbarramento di Val Brenta a Tezze” (realizzato tra il paese di Tezze e la frazione di Martincelli).
Lo sbarramento di Grigno aveva grande importanza per la resistenza dell’intero settore: qualora, infatti, avesse ceduto la linea di Ospedaletto, non sarebbe stato necessario evacuare il settore settentrionale ed abbandonare la linea Samone – Strigno – Bieno – Monte Lefre, né l’altopiano del Tesino finché la linea di Grigno avesse tenuto. Essa, infatti, tutelava l’arteria principale di rifornimento di tutto il settore delle cime di Rava e del Tesino, ovverosia la strada Grigno – Castel Tesino, realizzata dai militari italiani ancora nel 1915 sulla sinistra orografica di val Grigno. Giungendo per ferrovia a Grigno, uomini e materiali di rinforzo avrebbero potuto venire tranquillamente avviati alla prima linea senza temere aggiramenti.
Per la sua importanza, lo sbarramento di Grigno si avvaleva di una difesa “stratificata” a due fasce. Una prima linea trincerata chiudeva la valle tra la frazione di Selva e la località “osteria Tollo”: era una linea continua costituita da una trincea in terra, a cielo aperto, rafforzata con legname e sacchi di sabbia, coperta da reti metalliche inclinate per la protezione dalle bombe a mano. La linea si interrompeva al centro della valle, nell’ampio greto ghiaioso del Brenta, dove ogni lavoro campale era sostanzialmente impossibile, mentre si sdoppiava in sinistra Brenta tra Tollo e “osteria Puele”. Una fascia di reticolati su cinque linee, ampia 20 metri, proteggeva la posizione delle fanterie, mentre da Selva alla sorgente “Bigonda” una serie di appostamenti laterali permetteva di battere sul fianco destro un eventuale assalitore. Nella parte centrale, il letto del Brenta era sbarrato da matasse di “catena reticolata”.
Il secondo “strato difensivo”, quello principale, era stato realizzato all’altezza del paese di Grigno. In pratica, l’argine sinistro del torrente, dal paese alla confluenza nel Brenta, era stato trasformato, sbancato e rialzato: nasceva così il “trincerone di Grigno”, una possente opera campale costituita da una lunghissima postazione coperta, a pareti in calcestruzzo, con numerosi accessi posteriori (quasi uno ogni dieci metri) sbarrati da porte in legno e protetti da alte pareti in terra e sacchi di sabbia. La copertura superiore, anch’essa in spesso calcestruzzo, si estendeva per l’intera lunghezza dell’opera: secondo i documenti progettuali, tuttora esistenti presso l’archivio del Genio militare a Roma, essa avrebbe dovuto essere irrobustita da una blindatura costituita da una piastra metallica annegata nel manto cementizio, ma di tale rafforzamento non esiste traccia in alcuna delle porzioni ove sia stato possibile esaminare lo spessore della volta. In sua vece, si rinviene peraltro un rado ed approssimativo intreccio di reti metalliche.
All’interno, esaminato in sezione, il trincerone presentava un “corridoio di servizio”, destinato a quella che potremmo definire come “mobilità trasversale” e riservato al transito, ai rifornimenti di munizioni e allo sgombero dei feriti. Anteriormente ad esso si trovava la “banchina di tiro”, sorta di stretto marciapiede rialzato, che dava accesso alle feritoie ricavate nel lato occidentale dell’opera, prospiciente il torrente Grigno. Alla banchina si accedeva tramite un gradino intermedio, anch’esso in cemento. L’interno della fortificazione poteva essere illuminato elettricamente ed esistevano numerosi posti telefonici. Particolare cura era stata posta nella realizzazione delle feritoie: ogni postazione per fuciliere presentava un’apertura rettangolare nella massa cementizia anteriore ed ogni foro era protetto da una piastra d’acciaio, di quasi un centimetro di spessore, trattenuta da quattro robusti perni metallici. Questo scudo aggiuntivo aveva nel centro un’apertura trasversale ad angoli arrotondati, attraverso la quale poteva essere effettuato il tiro mirato. Immediatamente dietro alla struttura principale della fortificazione, al di sotto del piano di campagna, erano stati ricavati ad intervalli regolari tre grandi vani protetti all’interno dei quali potevano trovare riparo comandi e riserve del presidio.
La fortificazione, iniziando a monte dell’abitato, sottopassava senza interrompersi la strada imperiale e così pure la linea ferroviaria, dove erano state realizzate peculiari opere di consolidamento, ora purtroppo non più visibili. Il letto del torrente Grigno era completamente sbarrato da gabbioni di reticolato e da catena reticolata, abbondantemente usata pure alla confluenza nel Brenta. Mine antiuomo attivate a strappo, denominate “torpedini terrestri”, erano sparse a profusione nell’ampio ed in gran parte asciutto alveo del torrente. Oltre il corso d’acqua, verso il potenziale attaccante, altri tre sbarramenti di reticolato su paletti in legno alti due metri, ciascuno di circa 20 metri di ampiezza, completavano la difesa. Una strada “di arroccamento”, prosecuzione meridionale della strada di Val Grigno, si staccava dalla strada imperiale e correva nella campagna, qualche decina di metri dietro alla linea, per garantire l’accesso agli autocarri dei rifornimenti. A nord, sul colle di San Udalrico, numerose postazioni per mitragliatrice in caverna e in Blockhaus permettevano di dominare la campagna di fondovalle a ovest del Grigno. A sud, oltre la confluenza del Grigno nel Brenta, il trincerone proseguiva per svariate decine di metri sull’argine sinistro del Brenta stesso per batterne il letto in concomitanza con analoghi appostamenti sulla sponda destra. Dalla confluenza, poi, la triplice fascia di reticolati svoltava ad angolo retto verso ovest e si portava verso le pendici del Pizzo, a protezione di un sistema trincerato campale che saliva fino a q. 600 e che aveva un caposaldo avanzato d’angolo, a bassa quota, in località “Bersaglio”. L’intero settore trincerato in destra Brenta, più avanzato rispetto al trincerone, permetteva di battere sul fianco destro il nemico che avesse proceduto lungo il fondovalle direttamente contro il trincerone stesso. A settentrione, l’ala destra del trincerone era inoltre protetta dalle pendici del Sasso Rosso.