DER LANGE GEORG, IL CANNONISSIMO DI CALCERANICA
Nel corso della guerra italo-austriaca del 1915-1918 ben pochi pezzi d’artiglieria raggiunsero, a fronte di una così breve permanenza sul teatro di battaglia, la notorietà del grande cannone da marina schierato per qualche settimana dall’Austria-Ungheria sulla modesta penisola che, di fronte al villaggio di Calceranica, si stende in direzione nord-est nel lago di Caldonazzo.
A tutti, o quasi, gli abitanti della zona è nota la presenza del cannone suddetto, variamente indicato dalla vox populi nel corso degli anni come “il Giorgetto”, “il San Giorgio” o “il lungo Giorgio”. Sicuramente meno nota è la storia delle vicende che portarono alla nascita di quest’arma, alla sua dislocazione transitoria a Calceranica, alla sua entrata in azione e al suo destino finale.
La comparsa di quest’arma e la sua adozione da parte dell’esercito della monarchia danubiana sono strettamente legate alle vicende di carattere economico ed industriale che coinvolsero la marina austroungarica prima dello scoppio della Grande Guerra. Nel marzo del 1911, infatti, venne approvato da Vienna lo stanziamento di ingenti fondi destinati a permettere la realizzazione di una serie di nuove navi per la marina da guerra asburgica; il programma cantieristico prevedeva tra l’altro la costruzione di quattro nuove corazzate classe Tegetthoff che avrebbero dovuto affiancare le preesistenti navi da battaglia classe Viribus Unitis e le più vecchie Monarch. L’ingente spesa era appena stata stanziata, quando negli ambienti della marineria austroungherese iniziò a farsi strada l’idea di una nuova classe di corazzate: da non molto, infatti, Die Flagge, il mensile del club nautico austriaco, o lega navale d’Austria (Österreichischer Flottenverein), aveva sostenuto che la classe Monarch dovesse essere sostituita. Per questo motivo, questa nuova progettata classe di corazzate venne spesso indicata come “classe Monarch sostitutiva”, anche se nei documenti ufficiali ci si riferisce ad essa come alla “classe Tegetthoff aggiornata”. La travagliata vicenda amministrativa destinata al reperimento degli ingenti fondi destinati alla costruzione delle nuove quattro corazzate portò nel 1913 alle dimissioni del 76enne comandante in capo della marina da guerra imperiale, ammiraglio Rodolfo conte di Montecuccoli. Lo sostituì il 62enne vice-ammiraglio Anton Haus, il quale alla fine di maggio del 1914 riuscì sorprendentemente ad ottenere un nuovo stanziamento provvisionale ripartito nei bilanci dal 1914 al 1918 per l’incredibile somma di quasi 427 milioni di corone-oro, equivalenti ad 1,8 miliardi di euro attuali. Il finanziamento prevedeva di poter coprire le spese di costruzione delle quattro nuove corazzate, di tre incrociatori e di sei cacciatorpediniere. Le quattro navi da battaglia erano provvisoriamente indicate con i numeri romani VIII, IX, X e XI; per il loro armamento principale si optò per l’adozione di 10 cannoni Skoda 35/45 (dove 35 indicava il calibro in centimetri ed il secondo numero si riferiva al numero di volte per il quale era necessario moltiplicare il calibro per ottenere la lunghezza complessiva della volata). Il calibro delle armi era quello adottato dai nuovi incrociatori da battaglia germanici classe Mackensen, allo scopo di uniformare per quanto possibile il munizionamento tra alleati e facilitarne quindi l’approvvigionamento.
Alla fine del giugno 1914, appurata l’effettiva disponibilità economica, venne finalmente dato il nulla osta per iniziare la costruzione delle navi VIII e IX, la prima nei cantieri di Trieste e la seconda in quelli di Fiume. Ma proprio in quei giorni intervenne l’attentato di Sarajevo, con il conseguente ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia; il complesso intreccio di alleanze militari tra le potenze europee impedì di circoscrivere il conflitto all’ambito austro-serbo e la catena di reciproche dichiarazioni di guerra sfociò in un conflitto mondiale.
Secondo i piani austriaci di mobilitazione, tutte le navi in costruzione che fossero in grado di navigare avrebbero dovuto essere indirizzate a Pola per il completamento, mentre non si sarebbero dovute avviare nuove realizzazioni. Poiché la maggioranza dei lavoratori specializzati dei cantieri navali erano, o sarebbero, stati richiamati sotto le armi, il comando della marina imperiale, in un incontro tenutosi nel febbraio 1915 con il consiglio dei ministri austroungherese, evidenziò l’opportunità di non utilizzare il finanziamento già disponibile, ma di congelarlo fino alla fine del conflitto, quando un nuovo ed aggiornato piano di costruzioni avrebbe potuto essere presentato.
Subito prima dello scoppio effettivo del conflitto, il 24 luglio 1914, era pervenuto agli stabilimenti della famosa ditta cecoslovacca Skoda (Waffenfabrik der Skodawerke AG) il contratto ordinativo per il primo lotto di artiglierie destinate alla nuova classe di corazzate: dieci cannoni ed una canna di riserva per la prima unità. I lavori procedettero speditamente, tanto che già il 22 novembre 1914 fu possibile collaudare una prima arma sperimentale presso il poligono d’artiglieria della Skoda a Bolewetz. Il 28 maggio 1915 la Skoda segnalò che il cannone n°1, con il suo affusto a culla, era pronto. Ma tutti i programmi costruttivi relativi alle nuove navi da battaglia classe Tegetthoff aggiornata erano già stati sospesi e non esistevano quindi scafi sui quali montare la nuova arma. Si trattava peraltro di un’arma importante, di un’artiglieria di grande potenza, per la quale apparve assolutamente indispensabile pensare a una razionale riconversione. Nell’estate del 1915 il Comando supremo, attraverso la direzione centrale d’artiglieria, arrivò alla decisione di dare in dotazione all’esercito, anziché alla marina imperialregia, tutti gli esemplari che la Skoda avrebbe consegnato man mano che provvedeva ad evadere quell’avventata prima ed unica commessa.
Il pezzo d’artiglieria venne da allora in poi indicato presso l’esercito imperiale come “Langrohrkanone 35 cm L45” (cannone prolungato 35/45).
Le caratteristiche dell’arma erano strettamente legate all’impiego marittimo per il quale essa era stata inizialmente progettata: il proietto, del diametro basale di 350 mm con un’altezza superiore a 1,6 mt, pesava circa 710 chilogrammi (la versione iniziale, utilizzata in poligono, solamente 635!); la carica di lancio era costituita da 193 kg di esplosivo, contenuti in un bossolo d’ottone alto 1,4 metri, che al momento dello sparo sviluppavano una pressione di oltre 2800 atmosfere, imprimendo al proietto una velocità alla bocca compresa tra 770 e 820 metri al secondo. La potente carica di lancio, unitamente alla notevole lunghezza della canna, 15,75 mt, caratteristica delle grosse artiglierie navali, permettevano al cannone di raggiungere la considerevole gittata di 31,5 chilometri con tiro cosiddetto “marittimo”; la gittata minima era invece di circa 15,8 km. Il peso della canna e della culla era di oltre 74 tonnellate.
Il precedentemente non previsto impiego terrestre rese necessario studiare e predisporre uno specifico modello d’affusto, una pesantissima piattaforma metallica snodata a cassone, trasportabile per via ferroviaria e assemblabile sul luogo della messa in batteria, previo adeguato profondo sbancamento. Quest’affusto, grazie allo scavo preliminare, avrebbe permesso alla culatta di affondare al di sotto del livello del terreno circostante, consentendo di variare l’inclinazione della volata tra 20° e 40°, modificando così la gittata. Lo snodo della piattaforma metallica consentiva inoltre un brandeggio in lateralità di 30° per ciascun lato. Una potente gru di servizio, a “U” rovesciata, motorizzata e scorrevole su binari di tipo ferroviario paralleli alla piattaforma, permetteva il sollevamento e il posizionamento della bocca da fuoco sugli orecchioni dell’affusto.
Il 9 marzo del 1916 anche il cannone n°2 fu collaudato a Bolewetz, ma nel frattempo era stato deciso di schierare il già disponibile pezzo n°1 sul fronte italiano, in previsione della grande offensiva predisposta per la primavera del 1916 nel Tirolo meridionale. A fine marzo, da Bolewetz l’arma n°1 venne avviata al fronte sud con un treno militare sul quale trovava posto anche il primo esemplare di obice pesante da montagna 38 cm Haubitze M.16. Assieme a tale pezzo, denominato “Barbara” dal nome della santa patrona degli artiglieri, il Langrohrkanone 35 cm L45 (mai ufficialmente battezzato, ma già scherzosamente indicato come “Georg”) era destinato a formare una cosiddetta “batteria mista”. Una sosta di qualche giorno presso il poligono d’artiglieria ungherese di Hajmaskè permise di collaudare ulteriormente le due armi: venne dimostrata in quell’occasione la possibilità, per il cannone navale, di raggiungere la sorprendente gittata di 35 km! L’incremento, intuito ed ipotizzato già in sede di riconversione del cannone in artiglieria terrestre mediante la realizzazione del nuovo affusto, trovava la sua spiegazione razionale nella nuova traiettoria cercata per il proietto: non si trattava più di sparare da una nave contro un altro obiettivo posto sulla medesima superficie marina, fatto questo che obbligava il proietto a muoversi attraversando gli strati inferiori, più densi, dell’atmosfera. Il fuoco contro bersagli terrestri, posti a quote differenti ed eventualmente schermati da barriere montuose o rilievi del terreno, richiedeva traiettorie paraboliche molto più arcuate, vicine a quelle degli obici, ottenibili con lo sfruttamento massimo delle possibilità offerte dal nuovo affusto. Il proietto veniva così lanciato a quote molto maggiori di quelle raggiunte nel tiro navale, superando nella parte intermedia del tragitto i 10.000 mt. Muovendosi nella stratosfera, esso attraversava strati a bassissima densità di gas, incontrando una resistenza d’attrito molto inferiore e raggiungendo conseguentemente gittate maggiori.
Il 25 marzo il treno militare che trasportava “Barbara” e “Georg” arrivò alla stazione ferroviaria di Trento. Già allora, alle alte sfere dell’artiglieria imperiale incaricate di pianificare la preparazione dell’attacco sugli altipiani, apparvero evidenti l’assurdità e le difficoltà del mantenere a tutti i costi l’unità della cosiddetta “batteria mista”. Troppo diverse erano le caratteristiche e le conseguenti opportunità e possibilità d’impiego del potentissimo obice, la cui gittata massima superava a stento i 15 km, e del lungo cannone navale. Venne pertanto deciso di scindere la “gemischte Batterie” in due “semi-batterie” autonome a pezzo singolo, pur ancora sottoposte al medesimo corpo d’armata. Il “Barbara” prese così immediatamente la via degli altipiani: il 1 aprile il materiale ed il personale erano stati passati in rivista dall’erede al trono, arciduca Carlo d’Asburgo; il giorno 2 il lento e lungo convoglio lasciò Trento su strade sempre più ripide e strette ed il mattino dell’8 aprile il pezzo, appostato sulla cresta boscosa di Costalta presso il passo Vezzena, era pronto al fuoco.
Diverso fu il destino di “Georg”, avviato lungo la ferrovia della Valsugana fino a Calceranica dove, sulla penisoletta che la ferrovia divide dal paese, era stata decisa la realizzazione dell’appostamento. Nonostante la sua localizzazione insistesse sul territorio attribuito al XVII Corpo d’armata imperiale, la cui competenza andava dal ciglio meridionale della Valsugana a Cima delle Stellune, il pesante cannone venne ben presto ricondotto alle dipendenze del III corpo d’armata (il corpo d’armata degli altipiani), similmente a quanto avvenne per “Barbara”. Proprio sull’altopiano dei Sette Comuni si trovavano, infatti, tutti i suoi prevedibili bersagli.
Gli sbancamenti erano stati già avviati da qualche giorno quando, la notte tra il 3 e il 4 aprile, il lungo convoglio ferroviario arrivò presso il villaggio. Col favore delle tenebre e nel primo mattino la possente gru di servizio venne montata sui due binari ai lati dello scavo ed iniziò il montaggio della piattaforma. L’8 aprile l’arma era pronta ad aprire il fuoco. Il 10 aprile la batteria ed il suo personale (6 ufficiali tra i quali il s.ten. Alphons von Liguori, comandante del distaccamento di sicurezza, 120 tra artiglieri, pionieri ed addetti alla sorveglianza, 10 cavalli e 5 carrette) vennero passati in rassegna dal futuro imperatore Carlo.
Nonostante la sua contiguità territoriale, “Georg” non era dunque stato incorporato nel gruppo d’artiglieria pesante del XVII Corpo d’armata affidato al comando dell’Oberst Johann Schmidt e composto da tre batterie pesanti (sei pezzi in tutto), da un potente mortaio Skoda da 30,5 cm mod. 1911 dislocato anch’esso in Valsugana e dal mostruoso obice da costa da 42 cm, anche questo un prodotto Skoda, appostato presso la stazione ferroviaria di Levico. A differenza del mortaio da 30,5 cm e dell’obice da costa, destinati ad agire contro lo schieramento italiano a cavallo del Brenta, a “Georg” era stato affidato un compito non particolarmente glorioso, ma importante: colpire a sorpresa, grazie alla sua lunghissima gittata, la cittadina di Asiago sin dall’esordio dell’offensiva. L’azione non avrebbe dovuto avere un semplice scopo terroristico, anche se non si sottovalutava l’impatto che questi colpi avrebbero potuto avere sulla tenuta morale di militari e civili nell’immediata retrovia: in Asiago aveva infatti sede il comando della 34^ divisione italiana di fanteria, alla quale era demandata la difesa dell’altopiano dei Sette Comuni tra l’acrocoro di Cima Dodici e la Val d’Astico. Il bombardamento a sorpresa – si era ad oltre 13 km dietro la prima linea! – del centro nevralgico della grande unità avrebbe auspicabilmente portato disorientamento e caos nella catena di comando italiana, facilitando il compito delle forze imperialregie incaricate della prima possente spallata contro le linee trincerate del Marcai, di Vezzena e del Costesin.
Prima della fatidica data del 15 maggio 1916 non fu concesso alla batteria di sparare nemmeno un singolo colpo d’aggiustamento, per non svelare il pezzo agli osservatori italiani di Cima Manderiolo. Grande attenzione venne anzi posta nel realizzare adeguati mascheramenti della postazione, con reti mimetiche e rami d’abete periodicamente rinnovati. Furono attentamente studiate le tavole di tiro e la cartografia dell’area per calcolare con sufficiente precisione un’attività di fuoco che fosse da subito il più efficace possibile. Asiago distava poco più di 24 km in linea d’aria, ma subito dinnanzi alla batteria si innalzava la porzione più occidentale della catena di Cima Dodici, ciglio settentrionale dell’altopiano. Per la regolazione del tiro venne quindi perfezionata una forma di collaborazione, assolutamente innovativa per il fronte trentino, con una squadriglia dell’aviazione imperiale dislocata all’aeroporto del Ciré di Pergine: un aereo biposto da ricognizione Lohner C1 sarebbe stato appositamente distaccato per verificare in tempo reale i siti di caduta dei colpi e comunicare, via radio o eventualmente mediante messaggi scritti e lanciati sulla batteria, le opportune correzioni.
Il mese di aprile si concluse tranquillamente per la batteria “navale”. Nemmeno la disperata necessità d’appoggio d’artiglieria durante le violente battaglie di metà aprile in Valsugana, tra le pendici del Panarotta e quelle del Pizzo di Levico, convinse il comando dell’11^ armata austriaca ad utilizzare, se non altro per il tiro sulle retrovie italiane tra Borgo e Grigno, il fuoco di “Georg”. Proprio in quel periodo, in compenso, per il tramite dell’Hauptmann Oswald Sailer, comandante interinale, venne inoltrata all’amministrazione militare centrale la richiesta di poter disporre a breve di un distintivo da berretto, opportunamente personalizzato, per il personale della batteria. Era un classico “Kappenabzeichen”, simile a quelli che molte altre unità militari più o meno importanti avevano ed avrebbero ottenuto nel corso della guerra. Lo stesso ufficiale si era incaricato dell’elaborazione grafica del soggetto, immediatamente approvato. Entro poche settimane il fregio divenne disponibile, sia pure in quantità assai limitata (ne vennero prodotti meno di 200 esemplari), e venne distribuito a soldati ed ufficiali. Si trattava di un distintivo di forma rotonda, del diametro di 4 cm e dello spessore di 1 mm; vi era rappresentato un San Giorgio guerriero, munito di armatura e lancia ed intento a calpestare un drago, affiancato dall’immagine del cannone navale sullo sfondo di un riconoscibilissimo Pizzo di Levico. Uniche scritte: “Batterie Georg” e la data “1916”.
Il giorno cruciale arrivò a metà maggio. Il giornalista vicentino Giuseppe De Mori tratteggiò all’epoca in modo estremamente vivido ed efficace l’esordio dell’offensiva, marcato dal fuoco tambureggiante delle artiglierie: “Un boato sinistro scosse i monti nel pomeriggio del 14 maggio, divenne più frequente e più veemente durante la notte, infocando le cime, ruppe in un uragano il mattino del 15. Da Rovereto a Borgo, dall’Adige al Brenta, ma soprattutto fra la Posina e l’Astico s’era scatenata la battaglia”.
Verso le 7:15 del mattino del 15 maggio anche “Georg” fu autorizzato a far sentire la sua tonante voce da un ordine secco del capitano Sailer. Il boato del colpo in partenza si era ormai perso nella nebbiosa atmosfera lacustre da più di 30 secondi quando una colossale esplosione si verificò poco a nord del duomo di Asiago, risvegliando la cittadina e gettando nel panico la popolazione civile tutt’altro che preparata ai bombardamenti. Pochi minuti dopo – caricamento e puntamento non richiedevano normalmente più di un quarto d’ora – un secondo proietto piombò nello slargo ancor oggi conosciuto come piazzetta Pertile, demolendo un paio di abitazioni e provocando due morti (una madre col suo bambino) oltre ad una dozzina di feriti. Il biplano austriaco da ricognizione che dalle 7:00 volava in cerchio sulla cittadina ebbe pieno agio di effettuare indisturbato le opportune rilevazioni sui luoghi di caduta dei colpi e di trasmettere via radio i relativi dati per l’aggiustamento del tiro.
Qualche ora più tardi, alle 10:00 e verso le 11:00, “Georg” sparò su Asiago altre due volte appiccando il fuoco alle parti lignee di alcune case e provocando la fuga spontanea di buona parte della popolazione della cittadina, anche in assenza di specifiche ordinanze militari, nel primo pomeriggio: il caos auspicato dagli strateghi imperiali si era effettivamente manifestato, a sconvolgere la tranquilla vita dei comandi di retrovia e di quello, importantissimo, della 34^ divisione. La frettolosa e concitata evacuazione, che portò molte famiglie ad ammassarsi provvisoriamente nei vicini paesi di Lusiana e Gallio, impedì di circoscrivere i modesti focolai, che continuarono ad alimentarsi anche a causa della impreparazione, della disorganizzazione e della noncuranza inizialmente dimostrate dai servizi antincendio militari. Tre giorni più tardi, da questi roghi circoscritti ebbe origine un rovinoso incendio che alla sera del 18 maggio trasformò Asiago in un grande braciere.
La sera del 18 maggio, nel giro di un’ora, “Georg” sparò altri quattro colpi che caddero sul paese di Gallio tra le 18.45 e le 19.30. Il primo proietto cadde a circa 100 mt dalla chiesa, causando il crollo di una parte del soffitto e danneggiando il tetto, oltre a mandare i frantumi buona parte delle vetrate.
Il tiro del cannone n°1 proseguì nei giorni successivi, fino al 22 maggio, su bersagli individuati dalla ricognizione aerea nelle retrovie italiane attorno ad Asiago, Fondi, Gallio e Camporovere. Secondo alcune fonti i proiettili complessivamente sparati furono solamente 18, ma la versione più attendibile parla di un totale di 122 colpi a una distanza media di 25 km: quest’ultimo dato sarebbe compatibile con una cadenza di tiro giornaliera di poco più di 15 colpi, ossia uno ogni quaranta minuti nelle dieci ore di luce. Certo è che non tutti i colpi esplosero: almeno uno, affondato nel terreno molle, fu recuperato intatto in Asiago ed è ancora oggi esposto presso l’ossario monumentale. Altrettanto certo è che il numero di colpi sparati fu sufficiente a determinare una seria usura della bocca da fuoco e una importante deformazione della volata, al punto che negli ultimi giorni lo scostamento del tiro dagli obiettivi presi di mira divenne così rilevante da far disporre il ritiro del pezzo dal fronte ed il suo ritorno agli stabilimenti Skoda per la ritubatura.
Il giorno 23 maggio iniziò lo smontaggio di “Georg” ed il caricamento delle sue parti sul convoglio ferroviario che il 30 maggio lo riportò a Pilsen.
La sua non eccessivamente intensa attività aveva comunque lasciato il segno: gli italiani, informati dell’esistenza di questo cannone da disertori e prigionieri, nonché dagli effetti devastanti dei suoi proiettili, iniziarono a chiamarlo “il lungo Giorgio”, anche se neppure durante la sua presenza al fronte quest’arma ricevette mai, da parte austriaca, una denominazione ufficiale, seppure di copertura.
Lo scopo principale dell’impiego di un’artiglieria siffatta – disarticolare la catena di comando italiana sull’altopiano, gettando nel panico e nel disordine il comando della 34^ divisione in Asiago – non venne conseguito per una semplice ragione temporale: lo sfasamento tra l’entrata in azione di “Georg” e l’inizio dell’attacco asburgico sulla piana di Vezzena tra il pendio dei Marcai e il Costesin. Infatti il 20 maggio, quando l’offensiva imperiale finalmente scattò anche qui, il caos e il disorientamento che cinque giorni prima i ben centrati proiettili sparati da “Georg” avevano effettivamente creato in Asiago e presso il comando della 34^ divisione erano ormai abbondantemente superati. Comandante e Stato maggiore della divisione si erano spostati in zona protetta e la rete di inoltro degli ordini era tornata a funzionare a pieno regime, riportando alla normalità la gestione tattica e strategica del settore.
La disposizione inerente il ritiro di “Georg” dal fronte prevedeva la sua sostituzione, nel medesimo appostamento, da parte del già collaudato pezzo n°2 approntato dalla Skoda. La decisione rimase tuttavia priva di conseguenze, dato che quest’ultimo cannone alla data del 23 maggio era già in viaggio per il fronte bulgaro. Il suo ruolo avrebbe dovuto essere quello di cooperare alla distruzione delle fortificazioni erette dalla Romania lungo il Danubio, in preparazione dell’attraversamento del corso d’acqua da parte dell’armata del maresciallo germanico von Mackensen, che tentava di accerchiare presso Bucarest l’esercito romeno, già battuto e messo in fuga. Il pezzo n°2 entrò così in azione, incorporato nel gruppo d’artiglieria pesante dell’Oberst Reutter, sparando però solo pochi colpi presso Svistov: a differenza di “Georg” esso ebbe una denominazione ufficiale, quella con la quale venne consegnato all’esercito dalla Skoda: “B.K.L.45/ 2”, dove B.K. sta per “Belagerungskanone”, cioè cannone d’assedio.
Il 18 maggio 1917 la Skoda collaudò presso il poligono di Bolewetz anche il pezzo n°3. Per quella data, la situazione dell’ordine avviato alla fine del luglio 1914 era la seguente:
– cannone n°1: ritirato dal fronte e riportato per manutenzione e ritubatura agli stabilimenti Skoda;
– cannone n°2: consegnato all’armata imperiale;
– cannone n°3: completato ed allestito, in attesa presso gli stabilimenti Skoda;
– cannone n°4: negli stadi finali dell’allestimento;
– cannoni dal n°5 al n°11: in differenti fasi di fabbricazione.
Alla fine d’agosto del 1917 il pezzo n°2 venne inviato sul fronte italiano per esser installato a Santa Croce, presso Opicina, nei dintorni di Trieste.
Per il 23 settembre esso era in batteria, pronto ad agire contro le batterie costiere italiane a lunga gittata collocate tra Grado e l’estuario dell’Isonzo. Il 18 ottobre venne sparato il primo colpo contro Grado, attraverso il golfo di Trieste.
Il destino finale di questi imponenti pezzi d’artiglieria non è noto con certezza. Pare che l’arma n°2 sia stata ritirata dal fronte italiano e rimandata alla Skoda, mentre la n°3 sarebbe stata spedita al medesimo fronte da Pilsen, attraverso l’arsenale d’artiglieria di Vienna. Secondo alcune fonti, quest’ultimo cannone rimase in azione fino al collasso dell’armata imperiale nell’ottobre 1918, venendo poi catturato dagli italiani sul Piave, presso Gorgo di Molino; secondo altre voci l’arma sarebbe stata ritirata in extremis, rimanendo subito dietro il nuovo confine italo-jugoslavo (l’esercito jugoslavo, nel periodo tra le due guerre, possedeva un esemplare di cannone Skoda 35 cm L45). Altre fonti ancora sostengono che l’arma rimasta in Jugoslavia non sarebbe stata la n°3, bensì la n°4, tardivamente consegnata all’arsenale centrale di Vienna subito prima della fine del conflitto. Un esemplare, probabilmente il pezzo n°4 rimasto in territorio austriaco, venne sequestrato e trasferito a Parigi dalle truppe d’occupazione francesi nel novembre 1918.