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LA GRANDE GUERRA IN VALSUGANA E SUL LAGORAI

SARAJEVO, 28 GIUGNO 1914: INIZIA IL DRAMMA

Il 28 giugno 1914, a Sarajevo, un gruppo di nazionalisti serbi affiliati alla società segreta “La mano Nera” attenta alla vita dell’erede al trono austroungarico arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo durante una visita di stato in Bosnia-Erzegovina. Nell’attentato terroristico perdono la vita l’arciduca e la consorte contessa Sofia Chotek, colpiti dalle rivoltellate del giovane serbo Gavrilo Princip.

È la scintilla che fa deflagrare la polveriera europea. L’impero asburgico, sicuro dell’appoggio germanico, approfitta della matrice dell’attentato per imporre alla Serbia un inaccettabile ultimatum; il rifiuto dello stesso permette di ordinare la mobilitazione generale in seguito alla dichiarazione di guerra. Ma la rete di trattati di reciproca assistenza militare intessutasi nel decennio precedente porta in breve al coinvolgimento di un numero sempre maggiore di stati nella contesa appena iniziata: con un singolare e mai precedentemente verificatosi “effetto domino”, tutte le principali nazioni europee si trovano coinvolte in quello che, inizialmente, sembrava destinato a rimanere un semplice conflitto regionale. La dichiarazione di guerra austriaca alla Serbia determina la mobilitazione dell’impero russo; la Germania chiede alla Russia di smobilitare entro tre giorni e al rifiuto di quest’ultima entra anch’essa in guerra a fianco dell’impero di Francesco Giuseppe, chiedendo la neutralità della Francia, alleata dello Zar. Il rifiuto francese porta la Germania a dichiarare guerra alla Francia e alla successiva invasione del Belgio, per difendere la cui neutralità anche la Gran Bretagna, assieme a tutti i paesi del Commonwealth, entra nel conflitto.

Il piano di Germania e Austria-Ungheria è semplice, anche se la guerra si presenta difficile perché aperta su ben tre fronti (occidentale contro la Francia, orientale contro la Russia e balcanico contro Serbia e Montenegro): la Germania concentrerà tutti gli sforzi per eliminare la Francia dal conflitto prima che la Russia possa completare la sua mobilitazione e prima che l’Inghilterra possa far sentire il suo peso economico-militare. Nel frattempo toccherà alle armate asburgiche eliminare il bubbone serbo-montenegrino, al quale non si annette grande importanza militare, e soprattutto contenere le prime velleità offensive delle armate zariste. Una volta piegata la Francia, anche la Germania volgerà ad est la sua potenza militare per spezzare le reni all’orso russo.

 

LA SORPRESA SERBA E RUSSA

La mobilitazione generale dell’esercito austroungarico inizia ai primi d’agosto, con il richiamo di tutti gli abili alle armi tra i 21 e i 42 anni: anche i paesi del Tirolo italiano, Valsugana compresa, si svuotano dell’elemento maschile. Lunghe tradotte portano i valsuganotti e gli altri trentini a completare i ranghi di quattro reggimenti Kaiserjäger (la fanteria di linea tirolese), di tre reggimenti Landesschützen (truppe alpine) e di due reggimenti Landsturm (milizia territoriale), oltre a unità minori.

Le ostilità sui fronti balcanico e russo si aprono all’inizio d’agosto: le operazioni delle armate asburgiche contro la Serbia iniziano bene e la capitale nemica, Belgrado, vede ben presto le truppe imperiali alle sue porte. Ma un ritorno offensivo delle forze serbe sconvolge tosto ogni previsione, rigettando l’avversario oltre il Danubio con perdite gravissime. Per tutto il resto dell’anno le forze serbo-montenegrine riescono a tenere in scacco l’armata austriaca, il cui morale scende pericolosamente. Ad est, invece, il comportamento austriaco è alquanto imprudente: invece di limitarsi a controllare i confini estremi dell’impero prevenendo puntate offensive nemiche e guadagnando tempo, il generale Conrad von Hötzendorf, Capo di Stato Maggiore delle forze asburgiche, lancia tre sue armate in una improvvida avanzata verso nord e verso oriente allo scopo d’attaccare dal fianco meridionale il saliente polacco occupato dai russi. Conrad conta sull’impreparazione e sul previsto ritardo della mobilitazione dell’avversario, ma si sbaglia di grosso: dopo che le tre armate austroungariche si sono addentrate per una settimana nella steppa, affrontando semplici scaramucce con forze di frontiera, il “rullo compressore” dello Zar le investe cogliendole assolutamente alla sprovvista. Forze sette volte superiori travolgono gli austroungheresi, obbligandoli a una rovinosa ritirata di centinaia di chilometri nella quale andranno persi enormi quantitativi di materiali e innumerevoli prigionieri. I russi dilagano in Galizia, la provincia più orientale dell’impero di Francesco Giuseppe, respingendo gli austriaci sui Carpazi, ultima difesa delle pianure ungheresi che costituiscono il “granaio dell’impero”.

Contemporaneamente, la minaccia zarista verso occidente in direzione di Berlino, chiaramente non fronteggiabile dai soli austriaci, obbliga la Germania a distogliere forze dal fronte francese per tutelare il territorio metropolitano: la Prussia orientale è già parzialmente in mano russa e solo il genio strategico dei generali Hindenburg e Ludendorff permetterà di contenere dapprima e poi di annientare le due armate avversarie penetrate in territorio tedesco. Ma, pur coronato da successo, lo sforzo difensivo esercitato a oriente finisce per compromettere l’azione decisiva contro la Francia, che si arena sulla Marna senza realizzare il risultato strategico dell’accerchiamento da nord delle armate franco-britanniche.

I ritorni offensivi che sul fronte orientale di pertinenza austriaca si protraggono con alterne vicende fino alla fine dell’anno non cambiano la situazione sul terreno. La preponderanza numerica russa costringe gli imperiali a una disperata difensiva e le perdite, gravissime anche per i russi, sono tali da mettere in ginocchio l’esercito di Conrad, anche a causa della radicata tendenza ad applicare, in un conflitto in cui le armi individuali ad alto volume di fuoco e le artiglierie a lunga gittata sono ormai la regola, tattiche d’attacco ottocentesche con attacchi frontali, in schiere compatte, su terreno aperto. Tra l’agosto e il dicembre 1914 la duplice monarchia perde quasi 1.200.000 uomini tra morti, feriti, ammalati, invalidi, dispersi e prigionieri. Un salasso dal quale l’esercito non si risolleverà mai più, almeno dal punto di vista qualitativo.

 

1915, LA GUERRA IN CASA

Il 1915 è un anno che si apre sotto pessimi auspici per l’Austria-Ungheria: un’assurda offensiva invernale voluta dallo Stato Maggiore austriaco sui Carpazi e scatenata in gennaio sotto continue bufere di neve e con temperature di -30 °C, si tramuta subito in un insensato massacro nel quale gli agenti meteorologici mietono tante vittime quante il cannone.

A marzo, dopo un memorabile assedio, si deve arrendere alle forze zariste la piazzaforte di Przemyśl: oltre 100.000 uomini, tra i quali molti trentini, si avviano ai campi di prigionia dell’Ucraina e degli Urali. Nei mesi successivi, tuttavia, l’aiuto germanico sempre crescente e il progressivo esaurimento delle risorse materiali dell’esercito russo, in cronica difficoltà per l’arretratezza dell’industria bellica nazionale, permettono all’Austria-Ungheria di risollevare le sorti dello scontro, obbligando i russi ad arretrare e infliggendo loro, a primavera inoltrata, una disastrosa sconfitta nella battaglia di Gorlice-Tarnów, che permette d’arrivare alla liberazione di quasi tutta la Galizia.

Il 23 maggio i plenipotenziari italiani consegnano la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria, con effetto dalle ore 00:00 del successivo giorno 24. Per la palese impossibilità di difendere il confine con le scarsissime forze allora disponibili, gli strateghi austriaci avevano già preventivato l’abbandono della Valsugana orientale, del Tesino, del Primiero–Vanoi e dell’altopiano della Marcesina, per ripiegare sul crinale principale del Lagorai, esteso per 55 chilometri da sud-ovest a nord-est tra il monte Panarotta e il Passo Rolle. La Valsugana viene sbarrata con una linea difensiva appena abbozzata all’altezza dei laghi di Levico e Caldonazzo, appoggiata ai forti di Tenna e di Col delle Benne e in collegamento con le fortezze dell’altopiano di Vezzena tramite le fortificazioni campali del monte Cimone, sopra Caldonazzo. Un battaglione Landsturm e poco più di tre battaglioni Standschützen (composti da iscritti alle società di tiro al bersaglio d’età compresa tra 17 e 20 anni e sopra i 42), con meno di 3.000 uomini in tutto, presidiano inizialmente il fronte tra il monte Cimone e il passo Cadino.

Tra il 24 maggio e il 6 giugno i soldati italiani occupano il Tesino e la Valsugana tra Primolano e Ospedaletto: le loro linee scendono da Cima Caldiera fino al Brenta e risalgono poi sul monte Lefre, a passo Forcella, sul monte Silana, piegando successivamente a ovest fino ai monti circostanti il passo Brocon. Borgo verrà occupato solamente il 24 agosto e per quella data tutto il massiccio di Cima d’Asta-Rava-Tolvà cade in mano alle regie truppe senza combattimenti di rilievo. La lentezza dell’avanzata italiana è tale da indurre gli austriaci a spostare in avanti la loro linea di resistenza, che in autunno viene riposizionata all’altezza di Novaledo, con appoggi laterali a monte Carbonile (in Val di Sella) e sul colle di Sant’Osvaldo alle falde del Panarotta. Gradualmente aumentano anche le forze a disposizione dei difensori, che si impegnano in aggressive azioni di pattuglia per rallentare al massimo la già cauta avanzata nemica.

Singolare è, in questo periodo, la sorte delle popolazioni civili della Valsugana orientale e del Tesino: all’esordio del conflitto le autorità militari asburgiche, in previsione di un’avanzata italiana non contrastabile, hanno caldamente raccomandato l’evacuazione e lo spostamento dei civili dalle zone di confine ai centri interni della duplice monarchia. Ma, nella convinzione di dover affrontare solamente un breve conflitto di stampo risorgimentale e restie ad abbandonare case ed averi alla mercé del saccheggio italiano, le genti di Valsugana preferiscono in maggioranza affrontare l’ignoto a casa propria. L’arrivo delle regie truppe è, anzi, preceduto da un periodo nel quale i paesi tra Strigno e Roncegno vengono pattugliati alternativamente da italiani e da austriaci, al punto che per gli abitanti entra nell’uso, al mattino, interpellarsi reciprocamente con un esilarante “Semo ‘taliani o todeschi ‘ncòi?” (“Siamo italiani o austriaci oggi?”). Dopo il 24 agosto, con gli italiani stabilmente installatisi a Borgo e Olle, le popolazioni si devono adeguare a una relativamente tranquilla convivenza con l’occupante, facilitata del resto dalla lingua comune e dalla considerazione favorevole di cui i civili di lingua italiana delle “terre irredente” godono in generale presso l’opinione pubblica del regno. Diversa è invece la posizione, in larga parte preconcetta, di molti ufficiali superiori, sempre pronti a vedere intenti o azioni di spionaggio in ogni gesto o evento quotidiano che si discosti dalla norma. Anche quest’atteggiamento muta però in breve tempo, man mano che si constata la comunanza di sofferenze e di rischi che avvicina soldati e militari sotto gli shrapnel generosamente elargiti dalle artiglierie austriache del monte Panarotta.

Mentre sul fondovalle la linea italiana resta ferma all’altezza di Borgo, entro la fine dell’anno truppe alpine e fanteria si spingono ad occupare l’intera Val di Sella lasciando in mano austriaca solo il monte Carbonile. A nord del Brenta gli italiani superano il torrente Maso occupando la bassa Val Calamento e monte Setole per cercare di minacciare il valico di passo Cadino (Manghenéti) e il suo antemurale costituito da monte Valpiana. Sia sul Carbonile che sotto Valpiana si verificano sanguinosi scontri dai quali non sortisce alcun risultato significativo per l’attaccante.

Nell’ottobre, presso il comando della 15ª divisione di fanteria italiana a Castel Ivano, viene formata la “Compagnia Volontari Esploratori”, meglio nota, dal nome del suo comandante, come “Compagnia Baseggio” o, per la propaganda, “Compagnia della Morte”. Si tratta di un reparto di qualche centinaio di uomini, tutti volontari e in parte veri e propri “avanzi di galera”, provenienti da tutte le armi del regio esercito, che il comando intende utilizzare nell’ampia terra di nessuno tra i due schieramenti, per ardite azioni di pattugliamenti, ricognizioni e incursioni a sorpresa.

Intanto, a sud della Valsugana, lo schieramento italiano è ancora fermo dinnanzi ai forti austriaci degli altipiani, dove né i prolungati bombardamenti, né gli attacchi di fanteria dell’estate appena trascorsa hanno sortito risultati risolutivi. Le opere corazzate sono invero state danneggiate, a volte anche gravemente, come nel caso di Verle e Luserna, ma senza ottenerne la cessazione dell’efficacia difensiva. Per contro, le opere permanenti italiane più moderne, i forti Verena e Campolongo, sono state letteralmente smantellate dai grossi calibri austriaci (mortai da 305 mm); nel caso di forte Verena la stessa guarnigione è stata decimata nel giugno 1915 da un proiettile che, forando la copertura in calcestruzzo, è penetrato in profondità esplodendo nei locali ritenuti più protetti e causando la morte di quasi 40 militari, incluso il comandante dell’opera.

 

1916, INFERNO IN VALSUGANA

Dopo un inverno parco di neve ma estremamente rigido nelle temperature, al punto da far registrare tra le regie truppe svariati casi di assideramento e congelamento, le operazioni militari riprendono tra gennaio e marzo 1916, quando la Compagnia Baseggio, con reparti di fanteria e un battaglione alpino provvisorio formato dagli elementi non in licenza dei battaglioni Val Cismon e Val Brenta, sposta più avanti la linea d’occupazione in fondovalle penetrando in Roncegno, Torcegno e Marter e iniziando la salita del costone orientale del Panarotta. Proprio alle falde di questo monte, attorno al cocuzzolo di quota 1.450 dove sorge la chiesetta di Sant’Osvaldo, tra il 4 e il 6 aprile si consuma il sacrificio della Compagnia Baseggio, che esce dagli scontri letteralmente distrutta e con meno di 60 uomini ancora in grado di combattere sugli oltre 450 in organico. Tra il 12 ed il 13 aprile l’attacco italiano si sviluppa in grande stile, con l’impiego di oltre settemila uomini, sia sul fondovalle, verso Novaledo, sia sui fianchi contro monte Carbonile (a sud), monte Broi e Sant’Osvaldo (a nord del Brenta). Fallita immediatamente in Valsugana, l’offensiva sembra avere inizialmente successo sui fianchi: la fanteria italiana occupa di slancio monte Carbonile e anche il Sant’Osvaldo è preso. Qui, sull’onda del successo, le regie truppe iniziano addirittura, con la neve al ginocchio, la salita verso la sommità del Panarotta. Ma il contrattacco austroungarico smorza presto ogni velleità: il 14 aprile trecento Landesschützen riprendono il Carbonile e due giorni più tardi una violentissima e protratta azione a tenaglia travolge le neoconquistate posizioni italiane in sinistra Brenta: cadono Sant’Osvaldo e monte Broi e gli italiani ripiegano anche da Marter, rischierandosi su una linea che da monte Colo scende al torrente Larganza, davanti a Roncegno.

Una calma relativa scende sulla valle fino alla vigilia dell’offensiva austriaca del maggio 1916, definita più tardi “Strafexpedition” (spedizione punitiva): si trattava di un attacco progettato per sfondare le linee italiane tra Adige e Brenta, con lo sforzo principale concentrato sugli altipiani di Vezzena, Lavarone e Folgaria. In Valsugana e sui monti a nord erano previste piccole azioni dimostrative, destinate a trattenere truppe nemiche altrimenti spostabili contro il fronte principale d’attacco. Un primo attacco austroungherese su monte Colo il 15 maggio si risolve dopo dodici ore in un disastro, con la perdita di centinaia di uomini e nessun guadagno territoriale, mentre sul lato opposto della Valsugana, in Val di Sella, un’azione convergente di due agguerriti battaglioni sfonda la linea italiana all’altezza della grotta di Costalta e della Malga Busa del Mòchene, cioè sulle ali della linea di sbarramento. Aggirato sui fianchi, lo schieramento di Val di Sella crolla in pochi giorni permettendo la lenta, ma inesorabile discesa austriaca verso Olle: si viene così a creare un varco sul fianco destro della linea italiana sull’altopiano dei Sette Comuni, prontamente sfruttato dal nemico per risalire da Sella sul fondamentale bastione di cima Portule e innescando anche qui un drammatico ripiegamento italiano. Allo stesso tempo, in Valsugana, l’arrivo degli austriaci a Olle e Borgo obbliga al ripiegamento anche le truppe di Roncegno, monte Colo, monte Ciste, Salubio, Val Calamento, monte Setole. Passo Cinque Croci e Col di San Giovanni sono in mano avversaria già dal 16 maggio grazie a un colpo di mano che ha messo in fuga il presidio di alpini del battaglione Val Brenta, ripiegato a Forcella Magna.

Dopo accaniti combattimenti, tra 23 e 26 maggio gli italiani abbandonano anche monte Civeron (aggirato da un reparto d’assalto austriaco sceso dall’altopiano), Telve, Carzano, Scurelle, Spera e Strigno, per schierarsi sulla linea trincerone di Ospedaletto – monte Lefre – Bieno – Samone – monte Frattoni – monte Cima – Forcella Dogo – cima Ravetta – cima Primaluna – Tombolin di Caldenave – Cresta Ravetta – cima Trento – cima Brunella – Forcella Orsera – cima Orsera – cima Buse Todesche – Cengello – Forcella Magna – cima d’Asta.

Esauritasi la spinta offensiva austroungherese, i contrattacchi italiani del giugno 1916 cambiano di poco la situazione, obbligando l’avversario a ripassare il torrente Maso solo all’inizio di luglio e stabilizzando il fronte proprio lungo la linea di separazione individuata dal torrente Maso di Campelle. Gli austriaci mantengono solamente una piccola, ma fastidiosa e fortificatissima testa di ponte in sinistra Maso, all’altezza degli abitati di Palua, Pianezze e Castellare, a dominio della piana tra Scurelle, Strigno e Ospedaletto. Sul finire dell’estate, proprio attorno a questo caposaldo si verificano violenti scontri, contemporanei alle sanguinose azioni italiane volte a risalire sul Civeron, reso imprendibile dagli zappatori imperialregi.

Il lungo e pesante inverno ‘16/’17 esige il suo tributo di vittime anche sui Lagorai. Il 13 dicembre 1916 è il giorno più nero per ambedue gli schieramenti: in alta Val Calamento una valanga travolge un accampamento di portatori russi e di riserve austriache uccidendo 95 persone, mentre in Val Fierollo altre slavine seppelliscono un intero ospedaletto da campo italiano.

 

1917, CALMA E TRADIMENTO

Il 1917 si apre con i postumi del terribile inverno: a Forcella Magna (2.214 m) si sono registrate precipitazioni complessive per quattordici metri di neve. La viabilità in quota è assai limitata e i disagi si prolungano fino al maggio 1917.

In fondovalle la situazione ristagna, con le forze austriache schierate lungo la destra idrografica del torrente Maso dalla Val Calamento (spigolo di monte Valpiana – monte Setole – Tramenaga) e tra i paesi di Carzano e Castelnuovo in fondovalle. In destra Brenta monte Civeron è ancora teatro, fino ad agosto, di scontri brevi, ma cruenti: obiettivo degli attacchi italiani è la quota 775 (il “Boccardin”), fortificata e resa imprendibile dagli austriaci. A metà agosto gli italiani ripiegano sulla destra del rio dei Carrari e della Val Maora (costone del Col del Zibìlo), abbandonando le posizioni avanzate del Cafelòto e di quota 696 del Civeron (localmente Col delle Merde), prontamente rioccupate dagli austriaci.

Le ripercussioni della battaglia dell’Ortigara, che dal 10 al 25 giugno infuria più a sud sull’orlo dell’Altopiano, sono minime in Valsugana: alcuni attacchi subito abortiti contro il Civeron e nulla più. Tranquillità assoluta in Val Campelle, dove sono minime anche le azioni di pattuglia, mentre aumentano i disertori austriaci (soprattutto di nazionalità rumena, polacca, dalmata e cecoslovacca).

A metà agosto prende avvio la vicenda nota come “il sogno di Carzano”: un gruppo di traditori di nazionalità ceca e boema, comandati dal tenente sloveno Ljudevit Pivko, concorda con gli italiani un colpo a sorpresa presso il paese di Carzano: gli avamposti presso Castellare e Scurelle saranno messi fuori combattimento drogando con oppio il rancio, verrà interrotta la corrente elettrica nei reticolati, gli italiani verranno guidati da congiurati esperti dei luoghi all’occupazione dei punti più importanti della linea, colonne volanti di truppe d’assalto dovranno infiltrarsi nelle retrovie austriache e penetrare verso Levico e Pergine, magari fino a Trento. Ma l’operazione, poveramente condotta nonostante la pianificazione accurata, fallisce miseramente con oltre un migliaio di perdite per gli italiani: dopo un avvio promettente nella notte del 18 settembre, i bersaglieri vengono contenuti tra Telve e Carzano e all’alba si trovano circondati dai rinforzi austriaci, giunti nel frattempo. Le migliaia di uomini ammassati tra il Tesino e Strigno restano inutilizzati e non possono evitare il massacro che si consuma il mattino seguente all’interno di Carzano, dove la lotta infuria tra gli incendi e le esplosioni fino al pomeriggio. Gli austriaci accuseranno circa 250 perdite, a fronte della cifra sei volte superiore di italiani fuori combattimento.

Il 24 ottobre è il giorno di Caporetto. Le conseguenze della disfatta sull’Isonzo si manifestano in Trentino solo all’inizio di novembre, quando il fronte viene arretrato sulla linea Melette di Foza – Canal di Brenta all’altezza di San Marino – Monte Grappa – Fiume Piave. Le trincee di Ospedaletto e del Lagorai sono evacuate tra il 7 e l’11 novembre, così come le linee di cima Caldiera e di cima d’Asta. Il ripiegamento avviene sotto la protezione di reparti di retroguardia che si sacrificano a forte Campo, sull’altopiano di Celado e al forte di cima Lan per rallentare le avanguardie avversarie. A cima Campo il comando e una compagnia del battaglione Monte Pavione (350 uomini circa) resistono per due giorni e poi, accerchiati e privi di munizioni, si arrendono la sera del 12 novembre nel forte ormai disarmato delle artiglierie.

I due forti di Primolano, del Tombion, del Covolo di S. Antonio e di cima Lan sono fatti esplodere. Cadono intatti in mano avversaria forte Lisser e forte Campo. Abbandonati e inutili restano gli appostamenti in caverna di Coldarco (sotto Enego) e quelli in barbetta di Col del Gallo (a est del Tombion).

La Valsugana trentina diventa retrovia dell’armata austroungherese impegnata nello scontro finale sul Grappa e sull’altopiano dei Sette Comuni.

 

1918, LA FINE DEL CONFLITTO

Il 1918 è l’anno meno coinvolgente per la Valsugana belligerante: sul Lagorai si aggirano solamente squadre di artificieri e di operai militarizzati impegnati a disinnescare ordigni e a recuperare ciò che gli italiani hanno abbandonato nel corso della loro frettolosa ritirata. Sul fondovalle i paesi si rianimano, per la presenza di militari delle unità a riposo o in addestramento: campi d’addestramento per truppe d’assalto sorgono a Selva di Levico e a Tenna. Un aeroporto d’emergenza nasce a Grigno, mentre una rete di teleferiche si sviluppa per collegare il fondovalle con l’orlo dell’altopiano tra Ospedaletto e Primolano. Ma i combattimenti sono lontani e lo restano fino ai giorni del crollo. Sul Grappa si esaurisce in un fallimento l’ultima offensiva austroungherese del giugno, e ciò segna la fine di ogni speranza di vittoria per la duplice monarchia.

Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre un numero sempre crescente di unità austriache e, soprattutto, ungheresi si rifiuta di andare in prima linea o si allontana dalla stessa chiedendo il rimpatrio: è lo sfacelo, al quale sorprendentemente resiste lo schieramento più avanzato, che tiene a bada gli italiani sul Grappa fino a fine ottobre. Poi tutto finisce e le unità in ritirata, che resistendo hanno salvato il ripiegamento di migliaia di commilitoni, vengono catturate una ad una sulla via di casa. Il 3 novembre gli italiani sono a Borgo e truppe inglesi scendono a Levico da Monterovere, dove hanno superato senza incontrare resistenza i restaurati forti di Verle e Luserna.

Il 4 novembre, alle ore 15:00, terminano ufficialmente le ostilità, a seguito dell’entrata in vigore dell’armistizio firmato il giorno precedente dalle due parti belligeranti a Villa Giusti, presso Padova.